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La depressione si può curare?
“Oggi sono depresso”. Quante volte l’abbiamo sentito dire da qualcuno? Non dobbiamo però confondere un calo d’umore passeggero con i sintomi della depressione clinica, che sono diversi, pervasivi e prolungati nel tempo. Il disturbo depressivo clinico può portare una persona a sentirsi vuota, triste, disperata, incline al pianto e all’insoddisfazione, quasi tutti i giorni. Non solo. Le persone che soffrono di Disturbo Depressivo Maggiore possono manifestare un forte calo dell’interesse per tutto ciò che prima amavano fare. E poi, può intervenire anche una componente “più fisica” di stanchezza e di notevole mancanza di energie.
Una persona colpita da un grave disturbo depressivo presenta tre o più di questi sintomi.
- Umore depresso o tristezza per la maggior parte del giorno
- Minore capacità di mantenere l’attenzione e prendere decisioni, di pensare o di concentrarsi.
- Rallentamento o iperattività psicomotoria
- aumento o (in rari casi), diminuzione consistenti dell’appetito e relative conseguenze sul peso
- Insonnia o ipersonnia, nella maggior parte dei giorni
- Faticabilità o mancanza di energia
- Sensi di colpa, autocritica, autosvalutazione e sensazione di essere dei falliti
- Mancanza di speranza e pianto
- Irritabilità
- ridotto desiderio sessuale
- Pensieri ricorrenti di morte, che possono andare da un vago desiderio di morire, a un’intenzione precisa e pianificata di togliersi al vita. 15 persone su 100 che soffrono di depressione clinica grave muoiono per suicidio.
Molte volte la depressione è un disturbo ricorrente e cronico e, una volta superato, può ritornare a manifestarsi più volte. L’evento scatenante? Per quanto riguarda il verificarsi dei primi episodi, è facilmente individuabile in un evento esterno che la persona avverte e valuta come una perdita inaccettabile. Nelle susseguenti ricadute invece gli eventi scatenanti sono difficilmente individuabili.
Soffrire di depressione clinica può portare a gravi limitazioni nella vita di tutti i giorni: il lavoro e lo studio sembrano insostenibili, l’interesse per le cose e le attività svanisce, c’è difficoltà a mantenere relazioni di amicizia e di affetto. Un adolescente depresso non riesce a studiare, a relazionarsi con gli altri e quindi è notevolmente affaticato nello svolgere i suoi compiti e porre le basi per il proprio futuro.
Esistono dati epidemiologici che individuano la depressione come il disturbo psicologico più diffuso al mondo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2020, la depressione diventerà la seconda malattia più diffusa al mondo dopo le patologie cardiovascolari.
Il trattamento cognitivo comportamentale, insieme all’approccio interpersonale, è il più efficace nella cura della depressione. Diverse ricerche mostrano che circa il 75% dei pazienti depressi ha una significativo decremento dei sintomi entro le prime 20 sedute. Nel caso in cui al trattamento psicologico venga associato quello farmacologico la riduzione sintomatologica avviene nell’85% dei casi. È stato osservato che il miglioramento seguito al trattamento viene mantenuto nel tempo. Secondo il primo cognitivismo nato negli anni ’70, ad opera di menti geniali come Aaron Beck, il fulcro del disturbo riguarda i pensieri e le credenze negative su tre classi di oggetti: su di sé, sul mondo, e sul futuro. Secondo questo modo di pensare le credenze negative determinano l’esordio e il mantenimento del disturbo. Dunque il trattamento della depressione si costruisce intorno alla confutazione di queste “credenze patogene”. Apparentemente il problema potrebbe risolversi costruendo nuove credenze, lavorando cioè ad un livello freddo, razionale, proposizionale. In realtà accade spesso che i pazienti affermino: “ho capito tutto, sono d’accordo con questa nuova visione ma continuo a sentirmi triste come prima”. Perché succede così?
Perché anche la depressione, come la maggior parte dei disturbi psicologici, nasce in ambito relazionale, per cui la soluzione non può essere cercata solo a livello cognitivo-razionale (per quanto importantissimo!), piuttosto dovrà essere cercata in ambito relazionale, attraverso una relazione, entro cui sperimentarsi in modo nuovo, che potrà agire come occasione di cambiamento. Le novità che si sperimentano entro questa nuova relazione potranno costruire nuove credenze su di sé-con-l’altro, sul mondo e sul futuro che gradualmente si accosteranno alle precedenti determinando un cambiamento profondo che va al di là dalla semplice attenuazione dei sintomi. La relazione significativa portatrice di novità può essere quella con un amico, un maestro o un Amore, oppure con un professionista di fiducia insieme a cui costruire un nuovo brano della nostra storia!
Attacco di Panico
Dura pochi minuti, che sembrano ore. Lascia una sensazione di disagio e di vulnerabilità dove le paure più profonde prendono il sopravvento. Si presenta come un pericolo reale, una minaccia incombente… È l’attacco di panico! Una condizione negativa, molto spiacevole, che diverse persone provano nel corso della loro vita. Ogni crisi di panico contribuisce ad attivare e rinforzare un circolo vizioso in cui sensazioni fisiche, emozioni e pensieri si alimentano a vicenda: “la paura della paura”.
“Panico” deriva dal “dio Pan” che, nella mitologia greca, era metà uomo e metà caprone: un essere inquietante che compariva sul cammino delle persone suscitando un improvviso terrore. Allo stesso modo, un attacco di panico è un episodio breve e intenso, in cui si sperimenta paura acuta e improvvisa, accompagnata da caratteristici sintomi fisici.
I sintomi più comuni che coinvolgono il corpo:
- capogiri, sensazione di stordimento, debolezza con impressione di perdere i sensi
- nausea, sensazioni di chiusura alla bocca dello stomaco o di brontolii intestinali
- tachicardia o palpitazioni, spesso associati a dolori al torace
- tremori o scatti.
- rossore al viso e talvolta all’area del petto
- formicolii o intorpidimenti nelle aree delle mani, dei piedi e del viso
- difficoltà respiratoria o soffocamento
- aumento della sudorazione oppure brividi
Le emozioni e i pensieri più diffusi collegati all’evento:
- timore di non riuscire a gestire qualcosa di terribile
- sensazione di essere scollegati dalla realtà
- sensazione di osservarsi dall’esterno
- paura di perdere il controllo
- paura di impazzire
- convinzione di stare sul punto di morire
- crisi di pianto
La prima cosa che viene da pensare quando si è colti dal panico è di avere un problema fisico grave, come un infarto fulminante o un ictus. Per questo, in seguito ai primi episodi che presentano caratteristiche simili, è molto importante svolgere accertamenti medici che escludano una causa di carattere fisico. Se la causa fisica viene esclusa, resta quella psicologica.
In questo caso può essere molto utile parlarne con uno psicologo. Un professionista affidabile che possa accompagnare la persona lungo un percorso che porti all’attenuazione di sintomi apparentemente inspiegabili, fino a renderli tollerabili o a farli scomparire del tutto. Prima che il disturbo rischi di cronicizzarsi.
Perché sono diventato psicologo
Da ragazzo ho deciso di studiare psicologia perché è una disciplina che abbraccia sia l’aspetto scientifico che umanistico della conoscenza. La sua ampiezza di orizzonti mi consente di approfondire un tema che mi sta molto a cuore: la natura della sofferenza umana, soprattutto quella che nasce nelle relazioni: famigliari, sentimentali, di amicizia.
Tutto è cominciato all’Università di Padova, dove ho incontrato il mondo delle Scienze Cognitive. Con la tesi e il tirocinio triennale mi sono occupato di psicofisica e di segmentazione di tessiture in visione periferica. Ma è stato un libro a cambiare il corso dei miei studi: “Ragione ed Emozione in Psicoterapia” di Albert Ellis. Questa lettura fornisce una chiave interpretativa per ridurre la complessità dei problemi legati alla sofferenza psicologica, rendendoli più gestibili. Così ho iniziato ad occuparmi di psicologia clinica. Mi sono iscritto al Corso Magistrale di Scienze della Mente presso l’Università di Torino. Qui, ho conosciuto il professor Fabio Veglia, che sostiene la necessità di adottare un atteggiamento umile: quel tipo di umiltà che emerge dalla consapevolezza della provvisorietà e parzialità delle nostre conoscenze sul funzionamento della mente e del cervello umano, in accordo con il metodo scientifico proposto dal filosofo Karl Popper. Questo approccio porta a “imparare dai propri pazienti”. Da qui è iniziato il mio lungo viaggio nel mondo della Psicoterapia e della Psicotraumatologia.
Dopo aver frequentato i corsi di Psicoterapia Cognitiva e Sessuologia ho deciso di svolgere tirocinio e tesi sotto la guida del professor Veglia. Per la tesi ho collaborato a uno studio pilota per valutare l’efficacia dell’applicazione del protocollo EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) su un gruppo di pazienti oncologici.
Dopo la laurea in Scienze della Mente e il superamento dell’Esame di Stato, ho deciso di specializzarmi in Psicoterapia Cognitiva Comportamentale, iscrivendomi alla scuola presso il Centro Clinico Crocetta.
Ed eccoci qua!